L’evoluzione del metal nata più di recente è certo quel particolare genere definito da alcuni atmospheric sludge, in virtù delle sue chiare origini nel genere sludge metal e da altri post-metal: se i gruppi che l’hanno creato sono infatti attivi in molti casi pure dagli anni ’90, tale genere è maturato ed è emerso dall’underground più stretto solo nell’ultimo decennio. Questo sviluppo avvenuto così tardi, nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione rapida, ha fatto si che non esistesse una vera e propria scena, ma che ogni band seguisse una propria strada particolare al genere. E’ questo il caso degli statunitensi Giant Squid: dopo i primissimi passi, quando la band si chiamava Koi e suonava addirittura un originale misto di punk, reggae e ska, il gruppo adottò, insieme al monicker finale, un sound che nulla aveva a che fare con questi generi, ma lo stesso molto personale. Nell’esordio Metridium Field, uscito nel 2004 ma poi ri-registrato e pubblicato sul mercato nel 2006 (la presente recensione riporta appunto questo anno perché è stata fatta su quest’ultima versione), l’ensemble si propone difatti in un genere che alterna passaggi potenti, dal riffage decisamente sludge atmosferico, ed altri molto totalmente d’atmosfera e che scarseggiano di chitarre distorte, definibili soltanto come progressive rock; il tutto è coronato da testi piuttosto inediti, almeno in ambito metal, che trattano quasi esclusivamente di biologia marina e di storie ispirate ad essa, il che rende il tutto ancora più particolare.
L’iniziale Megaptera in the Delta non è altro che un breve intro tutto d’atmosfera, formato solo da una gran quantità di suoni, giusto un preambolo per la prima canzone vera e propria, Neonate. Questa, dopo un ulteriore preludio di lente chitarre, si rivela sin da subito un perfetto manifesto dell’album in cui è contenuta, risultando inizialmente piuttosto rapida (almeno relativamente al genere) ed anche potente, coi riff, evidenziati da una produzione strana e quasi da rock alternativo, più che da metal, che si rivelano di chiarissima matrice atmospheric sludge; tra queste parti appaiono spesso inoltre delle aperture molto più soffuse e nelle quali, quasi assente ogni forma di distorsione metallica, dominano le chitarre acustiche, spesso effettate, le quali contribuiscono ancora di più alla creazione di un mood particolare, dal sapore progressivo ma in qualche modo anche freddo, acquoso. L’alternanza va avanti per qualche minuto, finché non giunge la sezione centrale: essa è inizialmente parecchio pesante, col cantante Aaron Gregory che arriva ad utilizzare anche lo scream, ma poi, pur restando piuttosto animata, attraversa parti più particolari, prima della ripresa della parte principale, che conclude una opener di qualità più che decente. Una lunga coda di pianoforte ed effetti di chitarra, poi la successiva Versus the Sirens si avvia col suono di un organo, che le conferisce subito un incipit da rock progressivo. Il resto però non è da meno: quando la sezione ritmica fa il suo ingresso, abbiamo una prima frazione tutta dominata, oltre che da questa, anche da delicate chitarre acustiche e dai morbidi vocalizzi del duo formato da Aaron e Aurielle Gregory, che contribuisce all’atmosfera tranquilla e solo a tratti viene leggermente incrinata da qualche momento leggermente più energico (ma davvero di poco), proseguendo a lungo, e vedendo per un tratto anche l’ingresso del placido accompagnamento di una tromba (!), suonata dall’ospite Tim Conroy. Dopo lunghi minuti tutti sulla stessa falsariga, la canzone esplode però con anche una buona dosa di potenza: abbiamo così una bella e potente frazione del tutto votata al post-metal tendente parecchio a variare, con inserti più particolari e di sapore progressivo e, che anche in virtù di ciò, mantiene alte sia l’attenzione che il livello qualitativo, fino alle battute finali, le quali confluiscono nel lunghissimo outro, soffuso ed etereo ai massimi termini, e con il lento basso sempre presente a tenere il ritmo, a metter la parola fine ad un pezzo di caratura elevata. Dopo un nuovo intro soffuso, entra nel vivo quindi Ampullae of Lorenzini: abbiamo perciò un rifferama pesante ma non aggressivo, che risulta anzi volutamente piuttosto etereo e vario, a generare un’atmosfera difficile da definire, indecifrabile, malata e sbilenca com’è; ad alternarsi a questi momenti vi sono le ormai consuete aperture progressive, spesso di lunga durata, le quali riportano il feeling in una dimensione più tranquilla, per quanto il clima particolare, di mistero e di attesa, pervada anche essi. La parte migliore del complesso è però la seconda, molto più energica, ed in cui domina un riffage ossessivo e pesantissimo, il quale risulta veramente coinvolgente e mai noioso, pur non presentando quasi variazione nel suo lungo minutaggio, impreziosendo così ancor di più la presente canzone, che di conseguenza risulta ancora una volta di fattura tutto sommato buona.
Il bell’intro di Summit è estremamente lento nel suo sviluppo, cominciando con un campionamento e proseguendo con le voci dei due Gregory che duettano, prima da sole, e poi accompagnate da teneri fraseggi di tastiera. Il pezzo vero e proprio comincia solo tre minuti e mezzo dopo, e parte con un mid-tempo dall’atmosfera molto immaginifica e progressiva, nonostante i riff siano comunque di discreta potenza; questi ultimi sono anche il punto di forza di questa sezione, sciorinando con competenza momenti più heavy ed altri meno aggressivi, ma tutti decisamente validi, per un pezzo ancora più che discreto. Giunge poi Eating Machine, un brevissimo interludio (nemmeno un minuto) fatto tutto di effetti, su cui una voce distorta si appoggia, e senza alcuna funzione se non introdurre la successiva Revolution in the Water. Questa si rivela la traccia più potente del lotto, con i rapidi e potentissimi riff iniziali che incidono splendidamente, e sono ciò che di più spicca nella traccia, per quanto non siano onnipresenti; come da norma Giant Squid, infatti, attraversiamo vari passaggi in seguito, con parti più soft che si alternano a tali momenti, spezzando la canzone col loro mood meno aggressivo, ma in questo caso oscuro. Quest’alternanza genera un brano particolare, dal mood arcano e dalle vaghe reminiscenze Mastodon, che impreziosisce immensamente la traccia, rendendola, per quanto “breve” (soltanto cinque minuti e mezzo) una delle migliori qui dentro. E’ ora il turno di Metridium Field: la sua lunga parte iniziale è un dialogo campionato che si sovrappone ad un tappeto di tastiere e di lente chitarre acustiche, molto adatta a generare un mood etereo, d’attesa; quindi, il pezzo lentamente si appesantisce, finché la parte centrale entra in scena, col suo riff che varia leggermente la melodia già sentita precedentemente, cominciando a ripeterla da ora in poi di continuo, e senza più variare di dinamica, con le aperture soffuse che qui proprio non esistono. Nonostante questa virata stilistica (seppur il sound non vari poi molto rispetto a quello del resto), abbiamo ad ogni modo una traccia fantastica, visto che il riff risulta sempre potente nonostante l’ossessività, e viene reso fresco da un numero immenso di minuscole ma importanti variazioni, che compaiono di tanto in tanto. Vi sono così, a sprazzi, i vocalizzi dei due cantanti che si alternano, ora più soffusi, ora più aggressive, ribadendo i medesimi quattro versi del testo (ma quasi non si nota, tanto tali vocals sono diverse tra loro); a rendere ancora più interessante il tutto ci sono poi i piccoli assoli della tastiera (ed anche della tromba, a tratti) che appaiono qui e là, tenendo la soglia dell’attenzione alta. Il particolare più interessante è però la progressione del comparto formato dalla sezione ritmica, dalla chitarra e dal tappeto di tastiere: se difatti il riff ha sempre la stessa base, come già detto, si modifica comunque leggerissimamente man mano che si va avanti, con suoni che appaiono o scompaiono oppure cambiano anche di sonorità, ed il tema che si evolve, lentamente ma inesorabilmente. Il tutto contribuisce a farci partire per un viaggio psichedelico molto intenso, lungo oltre ventuno minuti (lunghezza verso cui anche la band, nella breve traccia nascosta che chiude il tutto, è colta ad esprimere stupore) ma senza un solo momento che non sia almeno coinvolgente, e che risulta per questo di gran lunga l’episodio migliore dell’album, senza il quale esso avrebbe avuto un voto probabilmente ben più basso di quello finale.
In conclusione, nonostante la bellissima title-track, Metridium Field non è un capolavoro, e di certo non è indispensabile; abbiamo tuttavia un bel dischetto, onesto e piacevole, anche grazie alla sua spiccata originalità, e che merita almeno un ascolto. Provatelo, perciò, soprattutto se lo sludge atmosferico fa per voi, e magari troverete anche qualcosa che saprà suscitare il vostro interesse.
Voto: 78/100
Mattia
Tracklist:
- Megapter in the Delta – 00:50
- Neonate – 06:39
- Versus the Siren – 09:23
- Ampullae of Lorenzini .- 09:16
- Summit – 06:39
- Eating Machine – 00:55
- Revolution in the Water – 05:33
- Metridium Field – 21:09
Durata totale: 01:00:24
Lineup:
- Aaron Gregory – voce, chitarre e banjo
- Aurielle Gregory – voce, chitarra e tastiere
- Magnus Bryan Beeson – basso
- Michael Conroy – batteria
Genere: doom metal/progressive rock
Sottogenere: post-metal