Alchemist – Austral Alien (2003)
Per chi ha fretta:
Gli australiani Alchemist sono un gruppo che fa dell’originalità la sua bandiera, come si può sentire per esempio in Austral Alien (2003). Il loro suono è un progressive/avant-garde metal molto influenzato dal post-rock e dall’elettronica, che ha il suo punto di forza nelle atmosfere psichedeliche ed espanse,da space rock, a corredo di un originale concept sulla conquista dell’Australia da parte degli occidentali. Purtroppo, se le prime quattro canzoni dell’album sono eccezionali, il resto è un po’ ondivago per qualità, come dimostrano riempitivi come Nature on a Leash ed Epsilon. È questo il motivo per cui Austral Alien non è il capolavoro che poteva essere, pur essendo un buonissimo lavoro, consigliato agli amanti delle branche più sperimentali del metal.
La recensione completa:
Australia: una terra che ha dato tanto al rock (basti pensare agli AC/DC) ma molto meno al metal, almeno in apparenza. Sono pochissime, in effetti, le band australiane davvero note; scavando però appena un po’ si trovano delle vere e proprie perle, come sono per esempio gli Alchemist. Partiti come band death addirittura nel 1987, si sono spinti nel tempo verso i confini più sperimentali del metal. Ottimo esempio di questa evoluzione è l’album di cui parliamo oggi, Austral Alien del 2003: il genere suonato dall’ensemble in esso è di base un progressive metal estremo in maniera vaga e per nulla canonico: sono infatti tantissime le influenze che assorbe, il che lo rende indefinibile se non come avant-garde. Gli influssi maggiori sono il post-rock e la musica elettronica: sono entrambi funzionali all’obiettivo principale degli Alchemist, quello di presentare atmosfere psichedeliche ed espanse, vicine a un certo space rock, un compito che peraltro riesce a meraviglia. Nonostante ciò, le tematiche non vertono sullo spazio, come si può erroneamente pensare: il lavoro è invece un curioso e affascinante concept sulla conquista dell’uomo bianco dell’Australia, paragonabile per certi versi a quelle aliene della fantascienza; è un tema fascinoso e originale, almeno quanto lo è il metal degli Alchemist. Nonostante tutto ciò, purtroppo Austral Alien pecca un po’ dal punto di vista del songwriting, che si presenta ondeggiante: se alcune canzoni sono eccezionali, ve ne sono altre poco incisive. Un vero peccato, per un album che come vedremo è molto buono ma poteva essere un capolavoro di dimensioni clamorose.
Un breve intro elettronico, poi la batteria di Rodney Holder dà il la a First Contact, traccia vorticosa che si basa su un riffage vorticoso e che ricorda da lontano il black e il death metal, a cui si accoppiano continue incursioni dei synth del frontman Adam Agius, per un effetto aggressivo ma anche piuttosto diffuso, spaziale. La canzone tende inoltre a evolversi ma senza cambiare troppo temi, c’è un’unità stilistica molto forte nelle diverse parti, che si rafforzano tra loro; contribuisce alla buona riuscita del tutto anche la prestazione multiforme di Agius al microfono, che passa da un cantato graffiante ed estremo nelle parti più aggressive a vocalizzi puliti e lontani in quelle più espanse. Abbiamo così un pezzo denso ma che passa velocissimo, complice anche la durata ridotta, lasciando una splendida sensazione di sé. Già dal breve e diffuso intro la successiva Great Southern Wasteland si presenta molto più espansa e tranquilla della precedente. Le strofe vanno nella stessa direzione: eteree e melodiose, sono quasi del tutto post-rock, e generano un effetto misterioso e d’attesa, molto calmo. Lievemente più metallici sono invece quelli definibili come i ritornelli, anche se i toni sono comunque distesi; in essi però l’atmosfera si fa abbastanza sinistra e oscura (seppur mai aggressiva), complici le belle dissonanze delle chitarre. Sulle stesse coordinate si muovono anche le piccole parti solistiche di chitarra, che punteggiano il pezzo, e la lunga frazione finale, la più metallica del pezzo, con potenti ritmiche e Agius che urla molto. Sono entrambi arricchimenti per un episodio comunque in toto splendido, che quasi raggiunge i migliori di Austral Alien! È quindi la volta di Solarburn, che comincia già alla grande, con il basso di John Bray in bella evidenza, a cui si uniscono presto le melodie delle chitarre di Agius e di Roy Torkington, un florilegio delicato e molto intenso, e poi un riffage più potente, ma altrettanto espressivo. È questa la base su cui si muove gran parte dell’episodio; fanno eccezione dei brevi stacchi più statici, alcuni più potenti, altri invece decisamente vuoti, che però non solo non rovinano il tutto ma gli danno il giusto respiro. La trama di base rimane sempre la stessa per i quasi quattro minuti del pezzo, ma gli Alchemist riempiono le trame di variazioni e incastrano il tutto in maniera competente a livelli estremi. É proprio il songwriting il segreto di una canzone in fondo semplice ma che risplende come la migliore dell’intero album!
Alpha Capella Nova Vega esordisce con tinte a metà tra elettronica e post-rock, una norma molta spaziale e melodica che prosegue sorniona, tra strofe placide e sognanti divagazioni strumentali, in cui Agius si fa valere ai synth. Inizialmente inoltre il mood è davvero calmo e disimpegnato, ma man mano che la canzone cresce i toni si fanno più crepuscolari, di una cupezza vaga ma presente. A questo si accompagna il progressivo appesantimento delle trame, finché la musica non approda a lidi metallici, anche piuttosto potenti e persino influenzati dal punk: il finale è infatti energico ad altissimi livelli, degna conclusione di un crescendo travolgente, che rende la canzone in assoluto la gemma più brillante di Austral Alien insieme alla precedente! Se fin qui quest’album è stato eccezionale, Older than the Ancient è la prima a presentare una lieve flessione: ciò è causato principalmente da una vaga sensazione di già sentito, specie in alcune delle trame post-rock. Niente paura, però, abbiamo lo stesso una traccia di buon livello, a cominciare dalle strofe, fascinose specialmente quando si presentano più energiche, passando per tratti più heavy e intensi, molto coinvolgenti. La parte migliore è però la lunga seconda metà, che alterna momenti piuttosto aggressivi e altri molto sottili e obliqui, di origine puramente post, di sicuro la ciliegina sulla torta dell’episodio. Un breve intro sintetico, poi si avvia Backward Journey, traccia condotta dalla cadenzata batteria di Holder, su cui si posa un riffage mansueto. Proprio questo, che non riesce a incidere se non in alcuni momenti, è probabilmente il punto debole della canzone; la musica graffia molto meglio quando le ritmiche sono più dirette e lineari, sia che si tratti dei ritornelli, vagamente sinistri, oppure dei tratti che reggono gli assoli dei synth, leggeri ma comunque espressivi il giusto. Buona anche la lunga coda finale, dai toni più drammatici rispetto al resto, e che chiude in bellezza un brano con alcune ombre, anche se in generale è valido e piacevole al punto giusto. Giunge quindi Nature on a Leash, la cui falsariga è spesso leggera e psichedelica ai massimi livelli, anche se i chorus, pur pieni di melodie, sono invece a tinte puramente metal. Purtroppo, né la prima né i secondi sono molto efficaci: tutto il pezzo soffre infatti di inconsistenza, sia per quanto riguarda i momenti più pesanti che quelli più soffici. Non c’è un solo passaggio che resti davvero in mente, e anche l’atmosfera non comunica granché: siamo in pratica davanti al punto più basso di Austral Alien, non pessimo ma un riempitivo vero e proprio.
Giunti a questo punto, per fortuna il disco si ritira su con Grief Barrier, che si avvia subito con la sua impostazione ritmica principale, al tempo stesso martellante ed espansa. Questa viene declinata poi nelle strofe in maniera molto spaziale, con un ritmo di batteria lento e una chitarra post-rock che disegna melodie al di sopra di tutto. Essi si scambiano con refrain più rapidi e potenti, in cui Agius ripresenta il suo cantato urlato e le chitarre formano un muro non potentissimo ma abbastanza compatto. Meno bella è la parte centrale, mutevole e orientata verso il progressive, con alcuni passaggi eccezionali ma altri meno d’effetto. È in ogni caso un dettaglio minimo per un brano che nel complesso si rivela molto buono. La seguente Epsilon si basa su un riffage circolare vagamente orientale e di nuovo psicotropo, che si ripete ossessivo per gran parte della traccia, sia nei momenti più marcati che in quelli più dritti e sotto-traccia. Questa base ritmica è però molto insipida, e non dice molto: non è un caso che la parte centrale, che riprende più o meno gli stessi temi ma in chiave post-rock, sia decisamente la migliore. C’è poco altro da dire: abbiamo un pezzo che insieme a Nature on a Leash è il peggio che Austral Alien abbia da offrire. Giunge quindi Speed of Life, song più tranquilla della precedente, con lunghi passaggi post-rock espansi ma che stavolta coinvolgono nella loro atmosfera sottile e intimista. Buoni anche i chorus, rockeggianti ma altrettanto leggeri, e che non interrompono il feeling generale della traccia; più o meno sullo stesso livello si muovono le variazioni inserite in questa struttura, sia quelle piccole e poco visibili, sia quelle più grandi, come per esempio le accelerazioni potenti che partono di tanto in tanto, anch’esse dal vago ascendente hard rock ma abbastanza taglienti. Queste spezzano la delicatezza che domina il resto della canzone ma sono ben incastrate: di certo non stonano in un pezzo che nonostante una vaga sensazione di già sentito sa bene il fatto suo! Siamo in dirittura d’arrivo: dopo un intro misterioso e sotto-traccia, parte Letter to the Future, closer-trackal contrario esuberante e aggressiva, con ritmiche dissonanti e cantato rabbioso. Questa norma è interrotta da alcuni stacchi che riportano al preludio, e tende inoltre a evolversi in senso più tempestoso e oscuro, in un crescendo di intensità che giunge fino a metà. Se tutto ciò è piuttosto coinvolgente, la parte migliore è però quella successiva, che abbandona in parte i toni aggressivi e si fa molto psichedelico. Spicca in particolare l’alternanza di assoli e tratti leggermente più intensi e cantati, una progressione breve ma molto efficace che si interrompe col finale. Quest’ultimo è quasi un manifesto del disco, tra influssi post-rock ed elettronici, una struttura progressive e sfaccettata e toni che passano dalla psichedelia a una certa potenza: abbiamo perciò una conclusione del tutto adeguata al suo contesto.
Nonostante la netta flessione nella sua seconda metà, Austral Alien è un buonissimo album, originale e con una manciata di pezzi che anche da soli meritano l’acquisto. Certo, come già detto resta il rammarico per il capolavoro che poteva essere e non è stato, ma in fondo poco importa: se siete fan delle branche più sperimentali del metal, gli Alchemist saranno pane per i vostri denti, è praticamente sicuro!
Voto: 82/100
Mattia
Tracklist:
- Fìrst Contact – 03:08
- Great Southern Wasteland – 04:12
- Solarburn – 03:51
- Alpha Capella Nova Vega – 04:33
- Older than the Ancients – 04:42
- Backward Journey – 04:24
- Nature on a Leash – 04:03
- Grief Barrier – 03:34
- Epsilon – 03:55
- Speed of Life – 04:07
- Letter to the Future – 05:52
- Adam Agius – voce, chitarra e tastiere
- Roy Torkington – chitarre
- John Bray – basso
- Rodney Holder – batteria
Genere: progressive/avant-garde metal
Sottogenere: electronic progressive/post-metal
Per scoprire il gruppo: il sito ufficiale degli Alchemist