Rosàrio – And the Storm Surges (2016)
Per chi ha fretta:
And the Storm Surges (2016), primo album dei veneti Rosàrio, è un lavoro che nonostante alcuni pregi risulta inespressivo e anonimo. Seppur il suo genere, un’unione di stoner e post-metal con varie influenze e un buon gusto per i riff, sia abbastanza interessante, l’album non riesce a convincere. In parte ciò è dovuto ad alcuni difetti, tra cui spiccano un po’ di cliché, una certa prolissità e un songwriting che ogni tanto tende un po’ a perdersi. Anche la scaletta non aiuta: seppur non ci sia quasi nulla di sgradevole, la qualità media è livellata verso una semplice sufficienza, e solo qualche pezzo come To Peak and Pine, Drabbuhkuf, Livor e And Then… Jupiter riesce a spiccare un po’. Concludendo, And the Storm Surges è un album piacevole da usare come sottofondo, ma se si cerca qualcosa di più consistente è meglio guardare altrove.
La recensione completa:
Nella maggior parte dei casi, so a grandi linee cosa dirò in una recensione anche prima di scriverla. Dopo i tanti ascolti e il tempo che mi riservo per prepararmi al meglio, arrivo al momento della stesura con un’idea chiara di un album, con le sue caratteristiche, i pregi e i difetti. Ci sono tuttavia casi, rari per fortuna, in cui devo scrivere una recensione senza aver ben chiaro in mente le qualità del disco, nonostante le miriadi di ascolti che gli ho dedicato. In particolare, spesso si tratta di dischi che non riesco ad apprezzare, senza però capire qual è il loro problema: purtroppo, il caso dei Rosàrio è proprio questo. Nati a Montagnana (Padova) nel 2013, arrivano l’anno dopo al primo EP Viscera, mentre è dello scorso anno il full-lenght, And the Storm Surges. Il genere affrontato dai veneti in esso è di base uno stoner metal contaminato da tanti elementi diversi. Il più importante è il post-rock, ma ci sono anche influssi che vanno dal doom più pesante e oppressivo ad alternative e grunge. Il tutto è corredato da un buon gusto per i riff, discretamente incisivi e quasi sempre interessanti. Si tratta di un connubio che sulla carta dovrebbero fare la felicità di uno che di norma stravede per questi generi; in pratica però mi lascia abbastanza indifferente, non riesce a smuovermi nulla dentro né mi rimane a lungo in mente dopo un ascolto. Certo, sono consapevole di alcuni difetti: per esempio, ogni tanto le melodie dei Rosàrio suonano un po’ scolastiche, e si ha l’impressione di averle già sentite in altri dischi stoner rock/metal. In più, alcune canzoni si rivelano un po’ prolisse, specie in certi passaggi post-rock, troppo lunghi e ossessivi per incidere. Infine, ogni tanto l’album risulta poco coeso, con pezzi con vari elementi mescolati tra loro in maniera un po’ discontinua: in generale, la scrittura a volte tende un po’ a perdersi, anche se in generale non è malaccio. Questi difetti in sé non pregiudicano una riuscita almeno discreta, ma comunque And the Storm Surges non mi esalta. Non c’è quasi nulla che sia spiacevole lungo la sua tracklist, ma penso lo stesso che sia un album inespressivo e anonimo, con una sua piacevolezza come sottofondo ma poco adatto per altri usi.
La scaletta prende vita da To Peak and Pine, opener energica e rapida, con un riffage abbastanza incisivo che rimane in primo piano per molto tempo, da solo o sotto la voce tagliente di Alessandro Magro. Solo a tratti la scena viene occupata da piccoli stacchi morbidi eppure preoccupati e ansiosi, molto diversi dalla norma di base con le loro melodie oblique, ma che in fondo si incastrano bene al suo interno. C’è poco altro da segnalare per un pezzo breve e semplice, che scorre via rapido ma lascia una buonissima impressione dietro di sé: abbiamo infatti uno dei pezzi migliori di And the Storm Surges. La successiva Drabbuhkuf entra in scena con molta calma, partendo da un intro strano, di basso profilo, per poi crescere fino a tornare su coordinate stoner. Abbiamo allora un brano rapido e graffiante, con una certa potenza e ritmiche tortuose, che seguono il lavoro del batterista Alessandro Bonini, apparentemente lineare ma complesso se si va a scavare. Questa impostazione non dura molto a lungo: presto il brano scivola su qualcosa di più espanso e psichedelico. Parte da qui una lunga sezione che alterna brevi scoppi di energia e lunghe sezioni cupe e dilatate, che evocano spesso anche un certo pathos. La potenza torna solo nel finale, con una breve coda più movimentata, che conclude una canzone in qualche momento un po’ prolissa ma molto buona, poco sotto alla opener per qualità. Dopo un inizio convincente, è ora il turno di Vessel of the Withering, pezzo in principio tranquillo e melodico, forse troppo. Nonostante i delicati fraseggi delle chitarre di Nicola Pinotti e Riccardo Zulato siano interessanti, dopo un po’ vengono a noia, visto che il tutto è davvero lento a entrare nel vivo. Quando finalmente succede, dopo oltre due minuti, la questione diventa leggermente più interessante: abbiamo sempre un pezzo calmo e senza traccia di aggressività, uno scenario con forti suggestioni post-rock e alternative. Per qualche tempo si alternano strofe intimiste e tranquille con ritornelli leggermente più pesanti, piacevoli anche se la prestazione di Magro è un po’ troppo sopra le righe, vista la natura melodica del complesso. Quando sembra che questa norma debba andare avanti a lungo, i Rosàrio cambiano binario, e il brano torna a coordinate stoner, per un finale variegato. Si alternano allora parti pestate, di vaga carica oscura, e altre più espanse e lisergiche, ma tutte accomunate da una certa energia, a eccezione dei ritorni alla falsariga precedente. È questa la parte migliore di un pezzo tutto sommato piacevole, ma certo non eccezionale.
Livor prende le mosse da un intro ondeggiante e che sembra quasi timido, ma svolta presto su una norma ben più decisa e potente. Comincia da qui un’evoluzione che presenta lunghi passaggi lenti e con un riffage dilatato, aiutato dai synth dell’ospite Mattia Bonafini che lo compenetra e anche dalla voce pulita e lontana di Magro. È un’impostazione ossessiva, che scambia giusto di tanto in tanto momenti più diretti ma sempre psichedelici e passaggi quasi caotici, pieni di echi, ma che ne accentuano l’aura rilassata ed eterea. Si cambia verso solo nella sezione centrale, che lascia il disimpegno del resto per una norma cupa, potente e aggressiva, con addirittura vaghi echi black metal (!). Nonostante la loro diversità, le due parti si compenetrano bene, anche grazie alla qualità intrinseca di entrambe. Ne risulta un ottimo pezzo, una delle punti di diamante di And the Storm Surges. Giunge ora Radiance, brano diviso esattamente a metà. La prima è lentissima, con solo i sussurri di Magro ed echi di chitarre lontane che si intrecciano in qualcosa che ricorda da vicino Planet Caravan dei Black Sabbath. È una norma con un suo fascino, ma che col tempo viene a noia, vista l’assenza di grandi variazioni e una lentezza esasperata nell’andare al punto. Va molto meglio quando al centro la traccia svolta su un pezzo più energico al punto giusto in tutti i suoi passaggi, sia quelli più rapidi e potenti che quelli più rallentati e d’impatto, in cui il frontman sfodera un’ottima prestazione. Il meglio lo danno però Pinotti e Zulato, autori di un ottimo riffage e di bei fraseggi qua e là. Sono il punto di forza di una seconda frazione ottima, anche se nel complesso risulta un pezzo riuscito a metà. La successiva I Am the Morass si rivela da subito dinamica e di buona potenza, dotata com’è di un riffage di base piuttosto efficace, pur non essendo il massimo dell’originalità. A parte questo, come base non è male: finché dura, il pezzo è più che piacevole. Purtroppo però esso è in scena solo per poco: il resto del tempo viene occupato da frazioni lunghe e dilatate, che cercano la psichedelia ma risultano molto fini a sé stesse. Ciò vale in special modo per quelle che punteggiano la prima metà: la seconda parte è un po’ più convincente, nonostante la sua rilassatezza ancor maggiore e la mancanza di energia. Di nuovo però i Rosàrio peccano di prolissità, il che contribuisce a rendere la canzone del tutto senza infamia e senza lode.
Dopo un breve intro di effetti sonori, Canemacchina entra in scena cercando l’impatto, ma in realtà sa molto di già sentito. Qualche passaggio è incisivo, ma abbiamo un avvio un po’ sottotono: lo dimostra il fatto che i veneti danno il meglio di loro nella frazione più dilatata che si apre poi. Pur essendo un po’ ossessiva, stavolta l’atmosfera è penetrante, vagamente oscura e con un certo pathos, il che non consente di annoiarsi nemmeno per un istante. Ciò è reso attraverso i bei lead di chitarra e la voce di Magro, qui quasi lancinante, entrambi elementi vincenti. Purtroppo, la traccia torna a svoltare poi su una norma simile a quella iniziale, con alcuni passaggi buoni (per esempio quello finale, di buona potenza) ma non eccezionale. Ne risulta insomma un pezzo godibile in maniera discreta, ma non di più. Entra in scena ora Dawn of Men: più che un vero pezzo, è una specie di intro espanso, con le chitarre acustiche nervose che ogni tanto fanno da base per gli interventi di Magro. Si tratta di una norma che va avanti a lungo ossessiva, cambiando ogni tanto da lunghi ed espansi passaggi sotto-traccia a qualcosa di più rutilante e denso, ma senza mai tornare verso lidi rock. Ciò succede solo verso la fine, quando si cominciano a sentire cenni ai temi che poi caratterizzeranno la successiva Monolith, che lascia quindi questo preludio un po’ ridondante ma piacevole e ci fionda dentro un ritmato pezzo stoner metal. La norma principale è movimentata, ma ha anche dalla sua una carica sentimentale non da sottovalutare. Essa è presente per buona parte della canzone, anche se alcuni stacchi la abbandonano per concentrarsi su qualcosa di preoccupato. Si tratta di passaggi che non si inseriscono bene nella canzone, e ne abbassano un po’ la qualità. Degno di nota anche il finale, strano con le sue molte urla in un ambiente quasi caotico, ma non spiacevole. Il risultato di tutto ciò un pezzo più che discreto, anche se la conclusiva And Then… Jupiter, che arriva a ruota, è decisamente meglio. Si tratta di un pezzo riflessivo ma in cui le variazioni funzionano, scongiurando ogni rischio di prolissità. A essere evocato è anzi un mood spaziale e onirico, che attraversa tutte le parti, sia quelle più distese che quelle leggermente più potenti. Di fatto, la canzone è un mare in cui ci si perde, piena di passaggi diversi ma ben incastrati, che avvolge bene e non annoia in nessun istante dei suoi quasi sette minuti. Abbiamo insomma un grande pezzo, il migliore dell’album che termina qui con To Peak and Pine e Livor.
Chiudendo i conti, And the Storm Surges è un album piacevole, specie se quello che si cerca è un sottofondo musicale di cinquanta minuti. Se però volete un album che vi smuova qualcosa dentro, secondo me dovreste cercare altrove. I Rosàrio sono un gruppo interessante e con le potenzialità per fare bene, ma per ora non mi hanno convinto abbastanza. La sufficienza la meritano, ma da loro spero di sentire in futuro qualcosa di ben più esaltante.
Voto: 63/100
- To Peak and Pine – 03:39
- Drabbuhkuf – 04:21
- Vessel of the Withering – 06:51
- Livor – 04:54
- Radiance – 05:41
- I Am the Morass – 05:02
- Canemacchina – 05:24
- Dawn of Men – 05:13
- Monolith – 03:19
- And Then… Jupiter – 06:52
- Alessandro Magro – voce
- Nicola Pinotti – chitarra
- Riccardo Zulato – chitarra
- Fabio Leggiero – basso
- Alessandro Bonini – batteria
- Mattia Bonafini – tastiera (guest)