The Blacktones – The Day We Shut Down the Sun (2017)
Pubblicato · Aggiornato
PRESENTAZIONE | The Day We Shut Down the Sun (2017) è il secondo album dei cagliaritani The Blacktones. |
GENERE | Un mix tra doom metal psichedelico, forti rinforzi groove e influssi vari, provenienti in special modo dal post-metal. Sono tutti mescolati in un |
PUNTI DI FORZA | Uno stile molto personale e ben amalgamato per rappresentare un panorama musicale oscuro, fresco e mai trito. Un’ottima registrazione; un gran songwriting, ben equilibrato tra potenza e atmosfera; una scaletta senza quasi momenti morti. |
PUNTI DEBOLI | Gli interludi vuoti che appaiono qua e là ai fini del semi-concept dell’album – ma non danno troppo fastidio. |
CANZONI MIGLIORI | Ghosts (ascolta), The Day We Shut Down the Sun (ascolta), Alone Together (ascolta), I.D.I.O.T.S. (ascolta), Broken Dove (ascolta) |
CONCLUSIONI | The Day We Shut Down the Sun si rivela un piccolo capolavoro nel suo genere, originale e realizzato a meraviglia: un album da recuperare, per i fan delle sonorità più oscure ed espanse del metal! |
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Come ho già detto altre volte in altre recensioni, i gruppi metal si possono suddividere in quelli facili da classificare in un genere specifico, e quelli che invece rifuggono questa possibilità. Parliamo di band che mescolano così tanto generi e influenze varie che è difficile fotografarle con una o poche etichette: tra l’altro, questo spesso consente loro di avere un suono più fresco e personale. Al contrario di come può sembrare, non sempre ciò è un pregio: ci sono gruppi che non riescono a gestire il proprio suono – dopotutto l’originalità da sola non basta – e sfornano album con molto potenziale, ma sfruttato male. Per fortuna, altri invece si valorizzare al meglio: è proprio il caso dei The Blacktones. Nati a Cagliari nel 2011, non hanno perso tempo: è giusto dell’anno successivo il loro EP d’esordio Distorted Reality, mentre nel 2015 arriva il turno dell’esordio omonimo autoprodotto. Risale invece allo scorso 21 novembre il loro comeback The Day We Shut Down the Sun, uscito grazie alla sempre attenta Sliptrick Records. Come già detto, lo stile con cui i The Blacktones lo animano è arduo da definire: di base, mescola un doom metal espanso, psichedelico – ma non in senso etereo, celestiale: è più un bad trip tenebroso – con notevoli rinforzi groove, specie nel riffage. Altri influssi provengono da stoner, sludge, southern e soprattutto post-metal, oltre che da generi più alternativi: sono però tutti funzionali alla creazione di un ottimo affresco, che li integra senza spigoli in un bell’unicum. Questa abbondanza di sfaccettature consente ai The Blacktones di non suonare mai banali e triti, ma al loro arco non ci sono solo freschezza e personalità. The Day We Shut Down the Sun può per esempio contare su una registrazione nitida e professionale al punto giusto ma mai eccessivamente pulita, che gli consente di far esplodere alla grande i suoi riff e di rendere le sue atmosfere molto avvolgenti. Il vero punto di forza dei The Blacktones è però la grande cura per questi due ultimi punti: il loro songwriting è maturo ed equilibrato, e sa stupire lungo la durata di The Day We Shut Down the Sun. Completa il quadro una sorta di concept, seppur non in senso stretto: ogni canzone narra qualcosa di a sé stante, ma tutte sono legate dal concetto di perdita di tutte le qualità che ci rendono umani, e da un filo legato ai tarocchi. Proprio questo è tuttavia il piccolo difetto del disco: proprio in ossequio a questa costruzione concettuale, i The Blacktones schierano alcuni strani interludi vuoti, pieni di effetti, che a livello musicale comunicano poco e spezzettano la scaletta. Di sicuro, qualcosa di più lineare e continuo sarebbe stato preferibile, ma in fondo non è un gran problema. Anche così, The Day We Shut Down the Sun rimane un grandissimo album, originale e di grandissimo livello: riesce addirittura a raggiungere il capolavoro!
Le danze partono da V – The Pope, primo degli interludi – e anche quelli con un po’ più di senso, per quanto mi riguarda: merito dei tanti effetti, sintetici o ambientali, che creano un’aura angosciosa, sinistra. È tutto sommato un buon intro, prima che The Upside Down stacchi con potenza: abbiamo allora un pezzo movimentato con un riffage selvaggio e possente subito in evidenza. È quello che torna ogni tanto lungo il pezzo, corredati dai vocalizzi di Aaron Tolu –che si muove sul filo tra growl e urla vere e proprie – e da un lead lontano, quasi post-rock, che dà loro un tono più espanso. La norma è invece un po’ più cupa: le strofe sono arcigne, con un riffage spezzettato che ricorda i Pantera su cui si stagliano le urla rabbiose del frontman. C’è spazio inoltre per una frazione più melodica al centro, divisa tra una prima metà molto espansa ma nera come la notte, grazie a un vaghissimo retrogusto addirittura black, e a una seconda più macinante, ma sempre eterea e dall’atmosfera malata e cupa. Bello anche il finale, che torna a qualcosa di più energico ma con un po’ di dilatazione residua, che man mano viene fuori per un effetto ancora lugubre. È un altro passaggio valido per una traccia di ottima qualità, che apre col piglio giusto l’album! La successiva Ghosts se la prende con calma: all’inizio è molto tranquilla, con un ritmo di chitarra distorta ma lieve, accompagnato da echi placidi, quasi ambient. L’aura evocata è però crepuscolare, fangosa: è quella che poi si accentua anche di più quando entra nel vivo un pezzo potente, dalle ritmiche profonde, che poi si stabilizza su una norma anche più energica. La base è lenta ma dissonante e aggressiva, di chiaro stampo sludge metal, con le urla del frontman in bella vista, seppur a tratti spuntino momenti meno rumorosi e più ordinati, che riprendono la norma iniziale in versione più pesante. La stessa progressione, da una norma lieve in crescendo si ripete diverse volte lungo il pezzo, ma sempre con le giuste variazioni che scongiurano il rischio noia e avvolgono l’ascoltatore in una magia oscura. Ne sono un ottimo esempio le influenze stoner che vengono fuori a tratti, oppure il finale, ossessivo e psichedelico ma di gran impatto grazie al battente riffage di Sergio Boi e Paolo Mulas, a un bell’assolo e alla voce echeggiata di Tolu, per un effetto malato, fangoso, avvolgente. È forse il momento migliore di un episodio splendido, da annoverare tra i migliori di The Day We Shut Down the Sun!
IV – The Emperor è un lungo pezzo ambient/noise retto da un effetto ondeggiante che si alza e si abbassa, su cui entrano vari rumori, echi ed effetti. Come gli altri qui, non spicca troppo ma almeno non è male nell’introdurre col suo campionamento finale The Day We Shut Down the Sun, che entra in scena a ruota e mette subito in mostra un altro lato dei The Blacktones, fin’ora inedito. Il riffage iniziale – che poi è quello portante per buona parte del pezzo – lascia da parte tutta la componente groove metal dei sardi per abbracciare un’impostazione doom a metà tra il classico e addirittura l’epic. Ma rispetto a questi generi, l’atmosfera è più strisciante: per quanto siano aperti e quasi onirici, con anche un certo pathos depresso, un’inquietudine profonda rimane sempre in sottofondo. L’altra anima della band torna invece fuori in strofe più variegate: a volte sono cadenzate, possenti e di basso profilo, di pura origine groove, altrove invece in maniera più rutilante, con persino una vaga nota djent. A eccezione di questo, e di qualche frazione più espansa di origine post-metal che appare qua e là, la traccia è abbastanza lineare nella sua struttura. Ma non è assolutamente un problema: grazie anche alle giuste variazioni, abbiamo un pezzo che avvolge alla grandissima nei suoi oltre sette minuti e risulta anch’esso tra i picchi dell’album a cui dà il nome. È quindi il turno di Not the End, che esordisce con un intro oscuro e strisciante, a tinte quasi alternative, per poi svoltare su una norma di gran impatto, ma più aperta. Ne sono un ottimo esempio le strofe, crepuscolari e movimentate grazie al batterista Maurizio Mura, ma a loro modo quasi trionfali, e senza l’oscurità asfissiante che abbiamo sentito per buona parte del disco fin’ora. Vale lo stesso anche per gli stacchi più rutilanti, di indirizzo groove e per i passaggi un po’ più lenti che spuntano qua e là – seppur in questo caso una certa oscurità sia presente. Procede sulla stessa falsariga anche lo stacco centrale, ancora espanso, psichedelico e con forti influessi stoner, con un assolo semplice ma di alto livello sotto alla voce del frontman. L’anima più oscura dei The Blacktones torna fuori invece solo in qualche ritorno di fiamma dell’inizio e negli scatti più aggressivi che compaiono qua e là. Anch’essi si inseriscono bene in un brano dalle mille sfumature ma molto ben fatto, l’ennesimo di alto livello di The Day We Shut Down the Sun!
III – The Empress è un altro interludio inquietante, con lievi echi e rumori che generano qualcosa di ansioso. Se non altro, ha il merito di durare poco, prima che Alone Together torni alla carica in maniera tempestosa, cupa e possente. È un’anima che si mostra spesso lungo il pezzo, a volte come all’inizio, altrove un po’ meno cupa e rabbiosa, a volte – come a un quarto di durata – espansa e con forti echi post-metal. Inoltre, questa norma si alterna con una molto più placida: seppur l’aura sia sempre mogia, depressa, cupa, la musica è tranquilla e piena di echi, di influsso ancora post-rock. È quella che poi prende il sopravvento poco prima di metà, quando la furia dei sardi si spegne in qualcosa di soffice, persino ricercato, per quanto sia mogio e triste. Ma non è finita qui: pian piano questa norma torna a crescere, mantenendo di base un’impostazione espansa, a tratti quasi spaziale, ma che col tempo si fa sempre più cupa e nervosa, fino a che il tutto non riesplode. Abbiamo allora una frazione potente ma ancora molto lisergica, che però dopo poco perde la sua essenza atmosferica per qualcosa di più diretto, potente, fragoroso. Tuttavia anche questo non dura: in coda, arriva una frazione più espansa, che unisce le varie anime già sentite fin’ora in un connubio caotico, in cui spiccano gli echi del theremin del frontman. È un gran finale per l’ennesimo pezzo splendido del lotto, non lontano dal meglio di The Day We Shut Down the Sun. Va però ancora meglio con I.D.I.O.T.S., che contrasta con la cupezza della precedente con un’altra novità. Sin dall’inizio, abbiamo un pezzo di gran energia, ma senza la tensione sentita fin’ora: il riffage della coppia Boi/Mulas è grasso e potente come da norma stoner/southern, e anche l’atmosfera è la stessa, nonostante il cantato abrasivo di Tolu. Questa impostazione zigzaga attraverso momenti più solari e tranquilli e altri più ritmati che però non risultano più aggressivi, anzi sono in linea con il piglio brillante del resto. Ma l’angoscia tipica dei The Blacktones non è sparita: è presente per esempio a tratti con influssi “post” inseriti nel resto per dargli un tocco più di atmosfera e di inquietudine. Soprattutto, però, torna alla carica nei refrain, che svoltano su una falsariga lontana, eterea, malata: nonostante un’aggressività poco spinta riescono a evocare un nichilismo davvero notevole. Questa aura è ben visibile anche nella seconda metà, che mescola gli influssi stoner già sentiti a qualcosa di più malato e sludge in un saliscendi impressionante tra momenti più disimpegnati e altri più depressi, ma molto ben gestito. È uno dei segreti per una traccia che nonostante la differenza non stona con le altre, né sembra fuori dallo stile dei sardi: abbiamo insomma l’ennesimo picco di quest’album!
Per II – The Popess vale lo stesso discorso fatto per The Empress: è un po’ insignificante, coi suoi effetti lievi, ma ha il merito di passare in fretta e di non dare troppo fastidio. È quindi il turno di Nowhere Man, che però all’inizio esita un pochino, e rimane per qualche secondo sottotraccia. Poi però entra nel vivo con gran potenza, rutilante e vorticosa: questa norma è uno dei pilastri del brano insieme a frazioni lievi ma striscianti, sempre con forti echi post-rock, e ai chorus. Questi ultimi sono il passaggio che più spicca nel pezzo: in un equilibrio ancora una volta perfetto tra potenza e melodia, risultano al tempo stesso potenti e intensi, aggressivi e melodici, persino catchy. C’è da dire che ogni tanto i The Blacktones stavolta risultano un po’ prolissi, specie per quanto riguarda la frazione soffice al centro; in più, ogni tanto l’insieme soffre di un vago senso di già sentito. Tuttavia, non sono grandi problemi per un pezzo che è sì il meno bello di tutto The Day We Shut Down the Sun, ma risulta tutt’altro che anonimo o scarso: la qualità è molto buona, è solo quello che ha intorno a renderlo meno appetibile. A questo punto, siamo quasi alla fine, ma i sardi hanno in serbo un’ultima grande zampata, che risponde al nome di Broken Dove. Si parte da un intro placido, con solo una chitarra pulita, ritmata e quasi ingessata, per un effetto di vuoto: come preludio è adatto per un brano che poi esplode con energia, ma anche una certa preoccupazione. La norma iniziale è melodica ma cupa e profonda, doom metal al massimo delle sue possibilità; la stessa sensazione fa da guida però anche al resto della traccia. È la base sia delle strofe, pesanti e di indirizzo groove – ma con Tolu quasi malinconico – sia nel lungo bridge, calmo, nascosto, quasi intimista coi sussurri del cantante e i lievi echi della chitarra e del basso di Gianni Farci. Non parliamo poi della frazione successiva, in cui il pathos esplode con forza: lento ma con un riffage intenso, martellante, eppure così disperato, suona al tempo stesso possente e di un’immensa nostalgia. Ottima anche la frazione centrale, più grassa e rabbiosa, di origine sempre groove metal ma con un inflessione djent/metalcore che però non stona, né pregiudica la sua profondità emotiva. Ma le sorprese non sono finite qui: nella struttura tortuosa, in continuo divenire, c’è spazio anche per un finale che lentamente mescola tutte le anime già sentite fin’ora in qualcosa di graffiante, quasi caotico, ma sempre molto carico a livello espressivo. È il giusto finale per un altro brano meraviglioso, a giusto un pelo di distanza dai migliori del disco: per l’album non ci poteva essere, insomma, chiusura migliore! In effetti però la conclusione vera e propria è affidata ad altri due brevi interludi, I – The Magician e 0 – The Fool: si staccano dall’outro della precedente e presentano impostazioni simili. La prima ha più densità ed è leggermente più musicale, la seconda invece ha solo un rumore bianco e a tratti rasenta il noise. Entrambe, come già accaduto altrove, non hanno molto da dire a livello musicale, ma non rovinano l’esperienza sonora appena passata e non sono malaccio come finale.
Come già accennato all’inizio, The Day We Shut Down the Sun è un lavoro notevole: quasi un’ora di viaggio oscuro con pochi momenti morti, che colpisce sia per potenza che melodia. Perciò, se ti piacciono il groove, il doom e in generale il metal più oscuro ed espanso, il mio consiglio è di non lasciarti scoraggiare dalla copertina – a mio parere abbastanza anonima e discutibile – e di farlo tuo. E in generale, ti consiglierei di tenere d’occhio i The Blacktones: sono una band molto matura, e potrebbero fare qualcosa di altrettanto valido in futuro. Peccato che siano nati in Italia: sono sicuro che all’estero oggi li starebbero già osannando!
1 | V – The Pope | 00:43 |
2 | The Upside Down | 04:46 |
3 | Ghosts | 05:50 |
4 | IV – The Emperor | 01:44 |
5 | The Day We Shut Down the Sun | 07:16 |
6 | Not the End | 04:45 |
7 | III – The Empress | 00:42 |
8 | Alone Togheter | 06:00 |
9 | I.D.I.O.T.S. | 05:46 |
10 | II – The Popess | 00:32 |
11 | Nowhere Man | 06:19 |
12 | Broken Dove | 06:43 |
13 | I – The Magician | 01:22 |
14 | o – The Fool | 01:45 |
Durata totale: 54:13 |
Aaron Tolu | voce e theremin |
Sergio Boi | chitarra |
Paolo Mulas | chitarra |
Gianni Farci | basso |
Maurizio Mura | batteria |
ETICHETTA/E: | autoprodotto |
CHI CI HA RICHIESTO LA RECENSIONE: | la band stessa |