Skid Row – Slave to the Grind (1991)
PRESENTAZIONE | Slave to the Grind (1991) è il secondo album dei celebri statunitensi Skid Row. |
GENERE | Prende dall’hard/sleaze rock dell’esordio omonimo e gli aggiunge un lato heavy più energico e a tratti moderno, in un connubio molto riuscito. |
PUNTI DI FORZA | Uno stile di grande potenza, un gran numero di idee, un’ottima varietà interna, una scaletta di altissimo livello. In generale, la band non ha perso lo smalto del pur migliore album precedente. |
PUNTI DEBOLI | Una relativa mancanza di hit. |
CANZONI MIGLIORI | Slave to the Grind (ascolta), Monkey Business (ascolta), Living on a Chain Gang (ascolta), In a Darkened Room (ascolta) |
CONCLUSIONI | Pur non raggiungendo i fasti dell’esordio omonimo degli Skid Row, Slave to the Grind si rivela un piccolo capolavoro di hard ‘n’ heavy, ispirato e ben fatto: potrà fare la felicità dei fan del genere! |
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1989: gli Skid Row pubblicano il loro esordio omonimo, una sorta di luce nel buio. Uscito in un periodo in cui l’hard rock del decennio mostrava chiari segni di aver finito le idee e di non avere più grande vitalità, si rivela al contrario ispiratissimo e di livello eccelso. Tuttavia, nel caso in cui una band esordisca col botto, spesso diventa molto difficile ripetersi. In effetti, neppure gli Skid Row ci riuscirono: tuttavia, con Slave to the Grind non ci andarono neppure troppo lontano. Uscito nel 1991 – lo stesso anno di Nevermind dei Nirvana – non è certo un album stanco o poco onesto come tanti altri pubblicati da quell’anno in poi. Al contrario, al suo interno gli americani mantengono la loro classe. Lo fanno peraltro con un genere rinnovato: rispetto allo sleaze di stampo quasi solo hard rock di Skid Row, Slave to the Grind presenta un suono più duro, con influssi da un altro genere al tramonto come l’heavy. È un heavy peraltro dagli spunti moderni: anche questo, insieme a una registrazione rocciosa, contribuisce a dare all’album una gran potenza. Potenza che peraltro si sprigiona bene nelle moltissime idee schierate dal gruppo, variegate e mai ripetitive: in generale, dall’esordio gli americani non hanno perso un gran livello di ispirazione. Certo, Slave to the Grind non è perfetto come Skid Row: colpa di qualche pezzo meno bello e di una certa mancanza di hit. Nella sua scaletta, sono tanti i pezzi eccezionali, ma solo uno si rivela trascendentale: dischi simili di solito hanno molti più squilli del genere. Ma è una pecca di poco conto: anche così Slave to the Grind è un lavoro di altissimo livello, con cui gli Skid Row non si allontanano poi troppo dai fasti del predecessore.
Monkey Business inizia con una melodia di chitarra pulita quasi country: ricorda (da lontano) Wanted Dead or Alive dei Bon Jovi, seppur in chiave più rilassata e leziosa. È un’aura che in parte resta pure quando la traccia entra nel vivo, seppur a dominare sia piuttosto l’impatto. Lo si sente soprattutto nelle strofe, puro sleaze metal anche abbastanza arrabbiato. Un pochino la scena diviene più melodica nei bridge, con dei cori accoppiati però a ritmiche ancora cattive. L’unico momento davvero arioso sono i ritornelli: nonostante un Sebastian Bach aggressivo, rileggono la norma di base in qualcosa di brillante, divertente a modo suo. È la stessa sensazione evocata anche dalla frazione centrale, che torna in parte verso l’inizio e ne sviluppa le sonorità, prima di un nuovo scoppio di potenza. È un altro elemento ben riuscito per un gran pezzo, a pochissima distanza dalla punta di diamante del disco! Punta di diamante che però segue subito: con Slave to the Grind gli Skid Row si spingono oltre in fatto di potenza. Lo si sente già all’inizio, che pure ha ancora qualche residuo hard rock; poi però il tutto si sposta su qualcosa di veloce e duro, con persino una nota groove metal nel potente heavy d’impatto. È una base che regge sia le potenti fasi strumentali che le strofe, anche più oscure e dirette nonostante siano sottotraccia. In ogni caso, confluiscono bene in bridge invece estroversi, energici: in breve, anch’essi sfociano nei ritornelli, un po’ più aperti ma di grandissima potenza. Un brevissimo assolo al centro è l’unica variazione di un pezzo per il resto semplice, veloce ma non per questo poco significativo. Al contrario, come detto siamo al cospetto del picco assoluto del lotto!
Dopo un uno-due del genere, non era facile ripetersi, ma gli Skid Row quasi ci riescono grazie a The Threat, che da subito mostra il lato più riottoso di Slave to the Grind. Il riff iniziale già è indicativo in questa direzione, ma ancora meglio va quando Dave “The Snake” Sabo e Scott Hill disegnano dei potentissimi riff per i bridge, scanditi ad alta velocità dal frontman e molto coinvolgenti. Ma i ritornelli fanno meglio: coi loro cori, si rivelano deflagranti, di grandissima presa ma al tempo stesso catchy il giusto. Le strofe sono invece più calme, ma non per questo mosce: al contrario, fanno respirare bene la struttura. Al solito, a parte un assolo di chitarra al centro non c’è altro nella struttura. Non che serva, del resto, visto che abbiamo un piccolo gioiellino nel suo genere! Dopo tanta energia, Quicksand Jesus ci presenta il lato più tenero degli americani. Prima ballad del lotto, comincia molto melodica, mogia con l’arpeggio di chitarra e il basso di Rachel Bolan sotto alla triste voce di Bach. Queste strofe però tendono a crescere: all’inizio lo fanno in maniera quasi timida, con fraseggi quasi prog oltre che hard rock. Presto però l’intensità sale, fino a sfociare nell’escalation dei ritornelli: lancinanti, con una prestazione eccellente del cantante, sentitissima. Ottimo anche l’assolo al centro, seppur la variazione più efficace sia quella nel finale, lacrimevole e sempre di gran pathos. Con la voce raddoppiata e un riffage da brividi, che poi si prende la scena in chiusura, è uno dei momenti migliori di un brano splendido, neppure troppo lontano dal meglio di Slave to The Grind!
Dopo un avvio quasi perfetto, gli Skid Row perdono qualcosa in qualità, ma giusto poco, con Psycho Love. Un breve attacco di Bolan, poi le chitarre lo riprendono in un riff hard ‘n’ heavy di quelli magmatici e sensuali, grazie anche a una nota funk. È un influsso che rimane ovviamente nei ritornelli, che riprendono questa norma, ma anche nelle strofe, con la loro natura meno esplicita, ma funzionale a inserirsi bene nel quadro del pezzo. Il tutto ha di norma un’aura scanzonata, divertente, ma al centro tutto cambia. C’è spazio per un lungo passaggio mogio, lento, riflessivo, con le chitarre pulite che disegnano panorami quasi dolorosi per un po’, prima che un tratto festoso riesploda all’improvviso. Nonostante la differenza radicale, però, questa divagazione non stona in un pezzo ben fatto: forse è addirittura sotto alla media del disco, ma per il resto è ottimo, e qui non sfigura! La successiva Get the Fuck Out comincia sin da subito sbarazzina, col suo riffage di carattere sleaze metal, seppur nella versione potenziata e heavy che gli Skid Row ci hanno fatto già sentire in Slave to the Grind. È la base che, in una forma evoluta, costituisce le strofe, cantante da un Bach particolarmente roco e ignorante. Più rockeggianti sono invece i ritornelli, che non perdono però lo spirito caciarone, volgare e festoso del resto. Lo stesso vale per la sezione centrale, che oltre al classico assolo presenta uno stacco punk col basso di Bolan in evidenza. Ottimo anche il finale, semplice e quasi anthemico: la giusta conclusione per una traccia breve all’estremo (neppure tre minuti) ma divertentissima!
Livin’ on a Chain Gang comincia nella maniera più classica per il rock duro: un’impostazione che poi tornerà spesso nel pezzo. Lo si sente nelle strofe, che risentono dell’hard anni ottanta, seppur in senso potenziato e con persino una certa carica evocativa, crepuscolare. Quest’ultima però viene meno coi bridge: sembrano quasi frivoli col loro coretto, ma poi esplodono i ritornelli. Al tempo stesso catchy e diretti, con di nuovo un influsso funk rock mescolato però con una potenza assurda, possiedono un impatto elevatissimo, il tratto migliore del pezzo e uno dei più belli del disco. Ma il resto non è da meno: la norma funziona, come anche il passaggio di centro, classico ma efficace al punto giusto. Ne risulta insomma un pezzo splendido, neppure troppo lontano dai migliori di Slave to the Grind. Dopo un pezzo così orientato al rock, con Creepshow gli Skid Row ci propongono invece il loro lato più metal. Non che manchi un elemento più leggero, come non ne manca uno funk, ben rappresentato ancora da Bolan, ma la pesantezza del riff di base è notevole, grazie anche a un vago accenno addirittura doom (!). C’è anche qualche nota dal primo metal moderno di quegli anni: la si sente sia nelle strofe, pure più aperte, sia in altri frangenti, invece di vaga oscurità. Oscurità che tuttavia non colpisce troppo bene, specie nei ritornelli, in cui per una volta gli americani non colgono nel segno. Un po’ mosci, con poco appeal, interrompono in maniera quasi fastidiosa la progressione invece energica e coinvolgente precedente. Ed è un peccato: tutto il resto, compreso un passaggio di centro ancora funky,funziona bene. Il risultato di tutto ciò è un pezzo anche buono, ma che sembra quasi un riempitivo in confronto agli altri di un disco così, di cui non può essere che il punto più basso!
Seconda ballad del lotto, In a Darkened Room ritira su con forza il destino di Slave to the Grind. Lo si sente sin dall’inizio, con un assolo delicato ma lacerante: una componente che poi tornerà diverse volte lungo il pezzo, a introdurre strofe di basso voltaggio, ma già avvolgenti. Gli Skid Row danno però il meglio nella progressione, che cresce sempre di più, tra arpeggi più densi, accordi semidistorti in sottofondo e la grande prestazione di Bach. Il tutto culmina in ritornelli davvero dolorosi, potenti e di un pathos che dà i brividi per intensità. Ottimi anche i dettagli di contorno: anch’essi contribuiscono in maniera decisiva a un’atmosfera che incide alla grande. È un altro dei segreti vincenti che compongono un lento splendido, il migliore del disco e a pochissima distanza anche dal top assoluto della scaletta! Dopo tanta calda disperazione, Riot Act cambia direzione con forza: già l’inizio include una componente punk, che verrà poi sviluppata più vavanti. Intersecata con l’hard ‘n’ heavy del gruppo, funziona bene: sul ritmo veloce di Rob Affuso, si snodano strofe semplici, dirette e ritornelli corali e catturanti, concepiti a puntino per essere divertenti al punto giusto. Ottimo anche l’assolo centrale, rockeggiante e di gran semplicità, ma valido E poco importa se a tratti il pezzo sa di già sentito (per esempio, alcune melodie ricordano un po’ Makin’ a Mess da Skid Row): il risultato è comunque valido. In Slave to the Grind non brillerà troppo, ma neppure stona, al contrario sa il fatto suo!
Mudkicker si basa per buona parte sul riff iniziale, quadrato e heavy. È la base di alcuni momenti strumentali, delle strofe, più sottotraccia, e persino dei ritornelli, che invece sono più d’impatto, non catchy ma della giusta potenza. Le uniche variazioni sono invece i bridge, pervasi da un hard ‘n’ heavy più tipico, e la strisciante sezione solista al centro. Per il resto, abbiamo un pezzo piuttosto ripetitivo, ma non per questo monotono. La buona pesantezza e un’aura ombrosa, quasi truce, aiutano il tutto a non annoiare. Certo, all’interno del disco c’è di meglio: tuttavia, anche così il brano riesce a non sfigurare troppo. È però un’altra storia con Wasted Time, terza ballad con cui gli Skid Row concludono Slave to the Grind. La sua ricercatezza è ben udibile sin dall’arpeggio iniziale di Sabo e Hill: una base a cui presto Bach aggiunge un bel carico di malinconia. All’inizio sottile, nascosto, pian piano però esce fuori, fino a deflagrare nell’escalation dei ritornelli. Elementari, sanno però colpire con la loro melodia, catchy ma non zuccherosa né finta: evoca anzi una bella aura, di sofferenza ma anche di accettazione. Qualcosa che però col tempo comincia a venir meno, grazie al frontman e anche al progressivo potenziamento delle chitarre, che a tratti suonano davvero energiche, ma sanno anche evocare ottime emozioni, come nell’assolo centrale. Il momento più sentito è però alla fine: mescola le varie anime già sentite fin’ora in qualcosa di oscuro, ma che cresce in sentimento, grazie sempre al cantante e alle ritmiche. È l’ottima chiusura di un pezzo che lo è altrettanto: forse tra le tre ballad del disco è la meno bella, ma ciò non le impedisce di essere lodevole!
Come già detto all’inizio, Slave to the Grind non è all’altezza dell’esordio omonimo degli Skid Row. Tuttavia, non perde granché nel confronto: si tratta lo stesso di un capolavoro degno di ascolto anche solo per la manciata di pezzi eccezionali che contiene. E se non per questo, merita per il fatto di essere una delle ultime zampate, forse l’ultima in assoluto, dell’hard ‘n’ heavy anni ottanta, prima della sua definitiva estinzione. Una zampata che, se sei un fan del genere, non puoi lasciare che ti manchi!
1 | Monkey Business | 04:17 |
2 | Slave to the Grind | 03:31 |
3 | The Threat | 03:47 |
4 | Quicksand Jesus | 05:21 |
5 | Psycho Love | 03:58 |
6 | Get the Fuck Out | 02:42 |
7 | Living on a Chain Gang | 03:56 |
8 | Creepshow | 03:56 |
9 | In a Darkened Room | 03:57 |
10 | Riot Act | 02:40 |
11 | Mudkicker | 03:50 |
12 | Wasted Time | 05:46 |
Durata totale: 47:41 |
Sebastian Bach | voce |
Scott Hill | chitarra |
Dave “The Snake” Sabo | chitarra |
Rachel Bolan | basso |
Rob Affuso | batteria |
ETICHETTA/E: | Atlantic Records |
CHI CI HA RICHIESTO LA RECENSIONE: | – |