Ashes of Life – Seasons Within (2020)
PRESENTAZIONE | Seasons Within (2020) è l’esordio sulla lunga distanza per i portoghesi Ashes of Life. |
GENERE | Di base si rifà al death/doom/gothic metal più classico, ma aggiornato ai tempi moderni. Merito soprattutto di forti influssi post-rock e post-metal. |
PUNTI DI FORZA | Un suono non originalissimo ma personale, di grande espansione: questo genera una bella atmosfera, calda, depressa e con diverse sfumature. Una buona capacità di variare, alcune ottime zampate. |
PUNTI DEBOLI | Qualche cliché, una scaletta un po’ ondivaga. |
CANZONI MIGLIORI | Tried to Leave (ascolta), Burn (ascolta) |
CONCLUSIONI | Seasons Within è un album piuttosto valido. Forse gli Ashes of Life potranno fare meglio in futuro, ma intanto anche la loro musica attuale è consigliata a chi ama il death/gothic/doom metal! |
ASCOLTA L’ALBUM SU: | Youtube | Bandcamp | Spotify |
ACQUISTA L’ALBUM SU: | Bandcamp |
SCOPRI IL GRUPPO SU: | Facebook | Bandcamp | Spotify | Metal-Archives |
Diciamolo: seppur il gothic/doom come genere abbia moltissime possibilità di variare, non tutti riescono a sfruttarle. Molti, al contrario, si limitano soltanto a seguire le tracce di Paradise Lost, My Dying Bride e Type O Negative, senza andare oltre: il risultato a volte è anche piacevole, ma di sicuro non impressiona. Per fortuna però c’è anche chi riesce ad andare oltre (anche non di troppo) e a spiccare: è il caso per esempio dei portoghesi Ashes of Life. Nel loro esordio Seasons Within, uscito lo scorso 7 febbraio, affrontano uno stile che all’origine si rifà al death/doom/gothic metal di stampo classico, ma non per questo prevedibile. Al contrario, questa band di Lisbona riesce a rileggerlo in chiave moderna, già a partire da questa base, a cui danno per esempio una registrazione “odierna”. Soprattutto però Seasons Within brilla per le influenze post-rock che gli Ashes of Life vi inseriscono, non spintissime ma importanti. Sono avvertibili nelle aperture, ma non mancano anche nei momenti più pesanti, con diversi elementi da puro post-metal moderno. In più, sono presenti altri piccoli influssi (per esempio, a tratti dal black), anch’essi funzionali al principale intento dei portoghesi, ossia evocare una grande espansione. Tra i numerosi stacchi melodici e ritmiche non troppo concentrate anche nei frangenti più aggressivi – l’elemento death è sempre molto melodico – è un compito che peraltro agli Ashes of Life riesce molto bene. Il che conferisce a Seasons Within delle atmosfere ottime.
Cupe, depresse, rimangono però sempre con un gran calore, di quello che appartiene spesso alle band dell’Europa Meridionale, specie nel confronto con le più fredde sonorità nordiche. Inoltre, la band lusitana è abile nel variarla: seppur rimanga sempre sullo stesso colore, nel suo suono ci sono diverse piccole sfumature, che aiutano a non annoiare mai. Certo, alla fine Seasons Within non è perfetto: per esempio, pur essendo in buona parte personale, il suono degli Ashes of Life presenta alcuni cliché. Per fortuna, non è niente di troppo invasivo, di norma la musica del gruppo è tutt’altro che stantio. Il vero problema dell’album è invece la sua natura un filo troppo ondivaga: se sono presenti grandi momenti, altri invece sono poco brillanti. Almeno però i primi superano in numero i secondi: in generale, parliamo di un lavoro positivo. Da un lato, si sente bene che Seasons Within è l’esordio assoluto degli Ashes of Life (nemmeno un demo nella loro carriera, prima di quest’album). Ma dall’altro, un po’ di ingenuità non riesce a nascondere il fatto che parliamo comunque di un gruppo con del buon potenziale.
L’iniziale Shores se la prende molto calma: all’inizio è molto lenta, con chitarre echeggiate da tipico post-rock, con sullo sfondo il placido rumore delle onde. Si crea così un intro molto malinconico, che avvolge bene nella sua aura pur crescendo con grande lentezza: il pezzo vero e proprio infatti esordisce, all’improvviso, solo dopo quasi tre minuti. Ma l’atmosfera non cambia molto: ci ritroviamo infatti in un ambiente gothic/doom mogio, espanso, giocato tra le melodie della chitarra, un lead lento ma immaginifico, e il passaggio più espanso che lo segue. Accoppia l’anima precedente con un riff doom dilatatissimo e con la voce pulita di Tiago Silva, per un effetto ancor più dimesso. Anch’essa però col tempo sale, per un breve momento doloroso: sembra quasi che sia un apice solitario, ma poi la musica svolta. Ci ritroviamo allora in un passaggio cupo, tempestoso, con un riffage non del tutto amelodico ma plumbeo, su cui si posa il growl del cantante svedese Stefan Nordström. È uno sfogo che passa dal vorticante e death a un’espansione più doom, ma senza perdere un tocco truce e persino apocalittico, dato non solo dal cantante ma anche dagli accordi. Ne risulta un affresco che ricorda una versione più spoglia dei primi My Dying Bride: di norma è valido, anche se a tratti risulta un po’ ridondante. Per fortuna, non è un gran difetto; peraltro, i portoghesi hanno anche il merito di risollevare il pezzo nel finale. Prima è il turno di un tratto delicato, di tristezza composta ma che colpisce al cuore: la stessa sensazione che poi gli Ashes of Life mantengono anche nel finale, drammatico e potente, col growl più doloroso che altro. È un ottima componente per un pezzo non eccezionale ma solido, che apre Seasons Within a dovere.
Spiral Down comincia di nuovo tranquilla, con un arpeggio rarefatto presto retto dalla batteria e poi dal basso. E anche quando entra la voce calma di Silva, la situazione cambia poco: questa base va avanti, crepuscolare e abbattuta, per quasi un minuto e mezzo. Il pezzo entra in scena in quel momento, ma senza grandi variazioni: le chitarre pulite permangono e quelle distorte sono molto melodiche, come anche la voce. Ne viene fuori un panorama gothic/doom davvero calmo, nella sua tristezza quasi sognante. Con giusto qualche piccola variazione, questa norma prosegue per quasi tutta la traccia: fa eccezione il finale, che diventa sempre più denso. Prima con un assolo, quindi è il doppio pedale a guidare un riff anche piuttosto duro, almeno per la media dei portoghesi. Ma quando sembra che qualcosa di diverso debba accadere, la musica termina: è proprio questo il problema del brano, sembra quasi interrotto sul più bello. Nei suoi quattro minuti (di cui quasi metà di intro), abbiamo così una traccia inconsistente, il punto basso del disco: gli spunti erano buoni, ma in questo caso non sono stati valorizzati granché. Per fortuna, ora gli Ashes of Life ritirano su Seasons Within con Burn. Pezzo tutto strumentale, stavolta ci mette poco per entrare dal vivo: un breve intro calmo, poi ci ritroviamo subito in qualcosa di espanso, quasi sereno nella sua malinconia. A pitturarla c’è un bell’assolo, lento e trasognato: a metà tra suggestioni gothic e post-metal, anche con la sua semplicità crea un bel mood, caldo e attraente. Nel corso dell’episodio, oltre a evolversi verso lidi anche più eterei, onirici, si alterna con frazioni invece intimiste, misteriose, a carattere post-rock. Almeno, ciò va avanti per oltre metà durata: quando il metal riemerge nella trequarti, la distensione è scomparsa. Ci ritroviamo invece in qualcosa di sempre melodico ma più duro e crepuscolare, e che col tempo lo diventa sempre di più, fino a un’escalation nel finale. Col blast beat e un riff addirittura di indirizzo black, evoca però più che aggressività un grandissimo senso di sconfitta, molto penetrante. È lo stesso che poi si accentua nella breve coda doom conclusiva: un altro arricchimento, insomma, per un pezzo splendido, a poca distanza dal meglio che il disco abbia da offrire!
L’ennesimo intro post-rock, sempre avvolgente coi suoi echi, poi Autumn Days entra in scena ancora aggressiva. Tra il growl cavernoso di Nordström e un riff preoccupato, ansioso, a tratti di influsso black, pur avendo un certo pathos e una visione melodica risulta sconfortevole, ansiogeno. È una sensazione che si accentua anche nei momenti rallentati che seguono: tra armonizzazioni e un ritmo obliquo, il tutto risulta piuttosto allucinato. Nel corso del brano, questa progressione si ripete un paio di volte, ma poi la musica prende un’altra direzione: il passaggio di centro è più duro anche a livello delle ritmiche, di gran potenza. E lo diventano sempre più, fino a un apice al centro, vorticoso e cattivo, che poi sfocia in qualcosa di invece lento, quasi funereo, ma sempre inquietante. Tuttavia, la ricercatezza iniziale non è sparita: torna nel lungo outro, puro post-rock con giusto qualche accenno metal, espanso e delicato anche a dispetto di una nota oscura a tratti inserita dagli Ashes of Life. Nel complesso, ne risulta un pezzo non trascendentale ma buono, seppur in Seasons Within non brilli più di tanto. È perciò un’altra storia con Tried to Leave: attacca mogia, col pianoforte dell’ospite argentino Guido Lisioli su cui si posa presto una voce che legge una citazione addirittura dai “Colloqui con sé stesso” dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio. Circa un minuto, poi ci ritroviamo in un ambiente doom ancora ricercato, col piano sempre in bella vista: siamo però ancora nel preludio. Il pezzo vero e proprio invece è quasi rabbioso, col growl aggressivo e una base arrembante alle sue spalle. A evocarsi però più che una vera ferocia però è più un istinto ansioso, una volontà di vivere repressa. È una base che, al netto di qualche stacco (come quello della prima metà, che torna a citare Marco Aurelio), rimane al centro, ma con diverse variazioni. A tratti è riletta in forma più torva e cupa, altrove invece il doom è più espanso, per quanto l’oscurità domini. Il passaggio che spicca di più però è sulla trequarti, che dopo un assolo dilatato si pone ancor più truce e arrabbiato, anche a livello ritmico. È il gran finale di un pezzo splendido, pieno di sfumature emotive che lo rendono il picco indubbio del disco!
Per il finale di Seasons Within, gli Ashes of Life optano per Dying in the Snow, canzone che in principio è quasi solo vuoto e silenzio. Il suo spazio comincia a riempirsi in maniera abbastanza lenta: all’inizio c’è una tastiera quasi prog, poi raggiunto da chitarre lievi, di indirizzo post-rock. Cominciano a proporsi in lievi arpeggi e poi, più tardi, anche in assoli lontani, echeggiati, di pathos sottile e nostalgico. Pian piano, questa norma si addensa sempre più, con l’arrivo della sezione ritmica e anche l’intensificarsi dell’emozione evocata, con gli intrecci delle chitarre di Silva e di Luis Pinto sempre più d’effetto. La melodia rimane al centro, ma non è un problema: l’ambiente è avvolgente anche a dispetto dell’assenza di qualsiasi influsso davvero metal. È una situazione che dura a lungo: solo passata la metà, dopo un passaggio mogio con dei sussurri, qualcosa di più pesante vede la luce. All’inizio della stessa espansione, è però più angosciato, grazie al growl di Nordström e al riff sottostante, accompagnato anche da dei cori. In breve però anche la sua cappa si scioglie: è un finale celestiale, tra melodie post-metal sentitissime che ci conducono per pochi secondi fino a un outro. È di nuovo con dei toni delicati e post-rock che si conclude un pezzo particolare ma ottimo, che dà una chiusura di gran spessore all’album!
Per concludere, Seasons Within è un lavoro promettente per il futuro ma già valido in chiave presente. Almeno due o tre gradini al di sopra della media del suo genere, può fare la felicità di chi cerca del death/gothic/doom oscuro e moderno, e magari è stufo dei soliti cloni. Nel frattempo di vedere cosa gli Ashes of Life sapranno fare, e se riusciranno a trovare una maturità e una consapevolezza migliore, il consiglio è perciò di concedergli almeno un ascolto!
1 | Shores | 10:46 |
2 | Spiral Down | 04:05 |
3 | Burn | 06:40 |
4 | Autumn Days | 07:05 |
5 | Tried to Leave | 07:39 |
6 | Dying in the Snow | 07:27 |
Durata totale: 43:42 |
Stefan Nordström | voce harsh |
Tiago Silva | voce pulita, chitarra, basso, programming |
Luis Pinto | chitarra |
Pedro Silva | basso |
Pedro Antunez | batteria |
Jorge Teles | batteria |
Kevin Carter | chitarra (traccia 3) |
Josué Santos | chitarra (traccia 5) |
Guido Lisioli | chitarra (traccia 5) |
ETICHETTA/E: | autoprodotto |
CHI CI HA RICHIESTO LA RECENSIONE: | la band stessa |