White Walls – Grandeur (2020)
Pubblicato · Aggiornato
PRESENTAZIONE | Grandeur (2020) è il terzo album dei rumeni White Walls. |
GENERE | Un progressive metal rinforzato da forti spunti groove, ma al tempo stesso con un’anima espansa che si rifà al post-metal. |
PUNTI DI FORZA | Uno stile abbastanza personale, che sorregge diverse ottime idee, ben sostenute anche dal giusto equilibrio tra impatto, melodie e atmosfere. Sono fattori all’origine di una scaletta di media buona. |
PUNTI DEBOLI | Una certa discontinuità: sia il disco che le singole canzoni tendono a essere ondivaghe per quanto riguarda la qualità. In più, il complesso soffre di una certa mancanza di memorabilità e un filo di omogeneità. |
CANZONI MIGLIORI | Eye for an I (ascolta), The Slaughter (Marche Funèbre) (ascolta), Velvet (ascolta), Month’s End (ascolta) |
CONCLUSIONI | Grandeur alla fine risulta un buon album, adatto a chi ama il prog metal moderno, seppur gli White Walls abbiano il potenziale di fare molto meglio, senza i difetti che li affliggono. |
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Tra le varie cose buone che il metal ha acquisito nel corso dei decenni, c’è il fatto che oggi per il nostro genere tutto il mondo è paese. Se una volta c’erano scene ben precise e localizzate, negli ultimi decenni il fenomeno si è espanso ovunque. E così, ora è possibile trovare non solo band in pratica in ogni paese del mondo: soprattutto, quasi ovunque se ne trovano con, almeno in potenziale, un respiro internazionale. È il caso per esempio degli White Walls: con Grandeur, terzo disco di una carriera iniziata a Costanza (Romania) nel 2009, dimostrano di non essere per niente “provinciali”. Lo fanno a partire dallo stile, non lontano dalla media ma tutt’altro che derivativo, come sono certi album da posti “esotici”. Di base parliamo di un convincente progressive metal, spesso rinforzato però da un groove metal a carattere melodico. Seppur non manchino momenti più aggressivi o estremi, spesso questo genere viene inteso in una maniera più espansa della media. Merito anche della tendenza degli White Walls di derivare verso sonorità post-metal, che arricchiscono parecchio Grandeur. In più, i rumeni possono contare su un buon ventaglio di influssi, provenienti da metalcore e djent, ma a tratti anche dal doom e persino da thrash e black metal.
Seppur non sia un’innovazione radicale, si tratta di uno stile piuttosto personale. Ma la band non si ferma qui: nell’album sono presenti anche diverse ottime idea che spiccano. Animata dal giusto equilibrio tra impatto, melodie e atmosfera, la scaletta è molto buona di media, seppur pecchi di alcuni difetti. Quello più evidente è la discontinuità: sia Grandeur in generale che le singole canzoni sono ondivaghe per quanto riguarda la qualità. Ma soprattutto, nella musica degli White Walls c’è poco che rimanga davvero in mente: quasi ogni melodia in Grandeur è buona, ma la maggior parte fatica a farsi ricordare. Non aiuta un po’ di omogeneità, con certe costruzioni che si ripetono. Il risultato è un disco dispersivo, in cui anche gli episodi migliori brillano ma non fanno gridare al miracolo. Gli altri invece danno l’impressione che i rumeni potessero asciugarli e renderli più concreti, togliendo le parti meno buone. In generale, Grandeur è carino per buona parte, ma non va molto oltre: lascia l’idea è che al suo interno gli White Walls potessero fare di meglio, con quelle che sembrano le loro potenzialità.
False Beliefs è il tipico intro progressive: la base è lieve, con la chitarra pulita di Alexandru-Eduard Dascălu e qualche lieve tocco del basso di Șerban-Ionuț Georgescu. È la base su cui Eugen Brudaru canta in falsetto, sempre molto dolce: ne risulta un ambiente delicato, ma dopo poco più di un minuto e mezzo si spezza, all’entrata di Eye for an I. L’attacco è potente ma lento, doomy, ma nel giro di poco i rumeni accelerano sulla possente base principale. Variabile tra lidi più diretti, groove metal con un’evidente nota thrash, e altri invece più obliqui, di influsso groove, ha però l’impatto come punto fermo. Tuttavia, la potenza non dura: spesso la musica svolta nei ritornelli, col frontman di nuovo docile, emozionante (mentre prima a tratti sfoderava addirittura il growl) canta su una base di armonizzazioni quasi black metal, ma così dolce che ricorda il genere solo da lontano. Il tutto anzi risulta catchy al massimo, e per giunta si unisce all’altra impostazione, in un dualismo vincente. Un dualismo esteso pure al tratto centrale, con un avvio calmo, di melodia quasi alternativa, che poi sfocia in un’escalation di tono addirittura death metal. Anch’essa si integra bene in un brano eccellente, da subito tra i picchi di Grandeur. Con la seguente Home Is on the Other Side, gli White Walls si spostano quindi su lidi truci, aggressivi in principio. È un’anima che a tratti torna nel pezzo, seppur altrove la band la evolva in senso melodico. Lo dimostrano i tratti in cui Brudaru torna al pulito su una base che rimane groove, ma che a tratti devia verso coordinate più espanse. È la falsariga migliore qui, mentre quella che cerca l’impatto lo trova spesso, ma non sempre: a tratti purtroppo i rumeni si perdono. Molto meglio invece va con la seconda metà: in principio si spegne in qualcosa di melodico, prog rock minimale che però col tempo sale, fino a catapultarci in un finale grandioso. Con una base da post-metal malinconico e sognante, dalle atmosfere quasi dream pop, si chiude alla grande un pezzo diviso a metà. Per quello che esprime è di livello molto buono, ma poteva esserlo molto di più!
Anche Holy Worse si muove su due velocità, in maniera anche più limitante della precedente. Da un lato, la norma di partenza è ottima, con la sua potenza grintosa, seppur non troppo spinta. Lo stesso vale in fondo per i momenti più progressive, con una tastiera e anche Georgescu che emerge in slap. Dall’altro lato, però, i momenti più melodici suonano un po’ insipidi: colpa delle melodie poco incisive in cui Brudaru incappa, a tratti non supportati nemmeno dalla base. Ottima, invece, la sezione centrale, spezzettata col riffage di indirizzo metalcore su cui però spuntano melodie post-rock. Insieme al finale, che ne riprende la norma, valorizzano un pezzo però solo carino: di sicuro non spicca molto all’interno di Grandeur, anzi. Per fortuna, a questo punto i White Walls lo ritirano su con forza grazie a Velvet, brano che pende molto sul loro lato progressive. Si sente sin dall’inizio, quasi rockeggiante non fosse per il ritmo dispari e spezzettato, che poi si sviluppa anche nel resto del pezzo. Regge sia i ritornelli, che lo sviluppano in maniera al tempo stesso serena e nostalgica, un’atmosfera che colpisce alla grande, sia le strofe. Più variegate, si pongono a tratti leggere come in principio, a tratti più dure, col ritorno di qualche venatura groove. Ma risultano sempre espanse: gli unici momenti davvero cupi sono invece al centro e nel finale. Quando il primo rimane espanso, armonioso, con melodie quasi dal black melodico, solo il secondo ha impatto, con le venature metalcore nel riff di Dascălu. Si rivelano due ottimi elementi per un pezzo che lo è altrettanto, e non si pone neppure troppo lontano dal meglio del disco!
Purtroppo, a questo punto gli White Walls optano per Speaking in Tongues: pezzo più breve di Grandeur, i suoi due minuti e mezzo abbondanti sono già una pecca. Lo fa essere meno significativo del resto, anche se la colpa principale è del suo contenuto musicale. In realtà, non sono male né la parte più potente, groove di influsso doom piuttosto arrabbiato, né quella più calma, retta dalle buone melodie del basso di Georgescu. Ma se non annoia, il tutto non esalta neppure, anzi: specie nei momenti più potenti, sa un po’ di già sentito, sia nei confronti del disco che del metal in generale. La ripetitività estrema, con solo pochi cambiamenti qua e là non aiuta, anzi stona in un album di media meno lineare come questo. In cui, era inevitabile, quest’episodio risulta il punto più basso, carino e gradevole ma niente di che. Va meglio, ma solo di poco, con Starfish Crown: una scelta non troppo felice come singolo di lancio per il disco, che contiene molto di meglio. Eppure, almeno qualche punto di forza è presente: lo è per esempio il riff intricato, di vago influsso djent, con cui si apre. È lo stesso che regge ritornelli con però un problema: se a tratti la melodia cantata da Brudaru incide, quando usa il falsetto suona abbastanza privo di mordente. Per fortuna, il resto è migliore, a partire dalle strofe, delicate col loro gusto progressive dato dalla chitarra pulita di Dascălu. Niente male anche la fase centrale, notturna e vuota coi suoi echi di chitarra e basso che creano un bel panorama espanso, prima di una bella esplosione che potenzia la falsariga iniziale. È in pratica l’unica variazione di un pezzo piacevole ma in fondo solo discreto, che in Grandeur non spicca.
Con Locked In Syndrome, ora gli White Walls ritirano su in parte il disco. La canzone oscilla di continuo tra la falsariga iniziale, contorta e graffiante, e tratti più melodici. Lo sono sia le strofe, di basso profilo con la loro delicatezza, sia i ritornelli: persino più leggeri, stavolta risultano catchy anche nella loro rilassatezza. Di mezzo, trovano spazio bridge che riprendono l’inizio, corredati dal growl del cantante: il tutto va avanti fino a circa metà canzone, quando i rumeni cambiano strada. All’inizio sembra quasi un outro, con le percussioni di Theo Scrioșteanu e la voce lieve di Brudaru. Ma poi il tutto si riprende, con una progressione di impatto che incastra riff groove. A tratti c’è uno spiccato senso prog, altrove le ritmiche sono più dritte e con persino qualche influsso thrash a tratti. In ogni caso, la loro evoluzione è valida: arricchisce un pezzo non eccezionale ma almeno buono! Ora però Grandeur rialza l’asticella ancor meglio con Month’s End, che inizia in maniera espansa su sonorità elettroniche. Ma poi vira con forza su un groove/metalcore potente, vorticoso, che colpisce bene. Reggono in maniera ottima le strofe, a tratti growlate, a tratti più eteree col pulito del cantante degli White Walls, ma sempre di ottimo impatto. In versione modificata e più melodica, inoltre, la stessa anima sostiene anche i ben due refrain diversi di cui il brano è dotato, entrambi ottimi. Sia quelli più eterei e malinconici, sia quelli più ritmati catturano alla grande con la loro melodia. Lo fanno in particolare i secondi, passionali e intensi, ma anche i primi hanno un loro perché. Ottima anche il passaggio di centro, gestito dal basso sintetico per un effetto efficace, prima di un’altra sfuriata ai limiti col djent. È in pratica l’unica variazione di peso di un pezzo semplice ma ottimo, a poca distanza dal meglio del disco!
Purtroppo, a questo punto The Descent, come del resto preannuncia il titolo, fa di nuovo scendere il livello. Non che sia brutta, ma sin dal potente riff d’apertura, tra groove e influssi doom/post-metal sa un po’ di già sentito. Per fortuna, a mitigare l’effetto ci sono ritornelli anche più espansi ma musicali, con la loro base post-metal su cui Brudaru canta una melodia riuscita. Il meglio è però il tratto al centro: lascia ancora il metal per qualcosa di espanso. Ma al di là della ripetizione, è un passaggio di pura magia, sognante e avvolgente: quasi dispiace che duri poco, prima di tornare all’elettricità! Anche la ripartenza non è male, però, con un breve sfogo thrashy seguito da un’altra apertura calma e prog. Ottimo anche il finale, che invece torna al groove con forza ma anche con uno spirito lontano, sempre onirico. È un finale adeguato per un pezzo che nonostante la sua essenza ondivaga si rivela buono. Il che, nel bene e nel male, lo rende un manifesto valido per Grandeur. Quest’ultimo è ormai arrivato alla fine, e per l’occasione gli White Walls scelgono The Slaughter (Marche Funèbre), di gran lunga il pezzo più lungo della scaletta. Ma nonostante questo non indulge troppo in complessità: al contrario, inizia da un breve showdown di Scrioșteanu, a cui poi si sovrappone Georgescu. Il suo basso rimane anche quando inizia un riff macinante, ma quasi in sottofondo: ci si integra a lungo, in una strofa molto introversa, nascosta. Poi però i ritornelli esplodono in qualcosa di dimesso, disperato ma in senso dolce, caldo, con una melodia di Brudaru che colpisce benissimo per tristezza. Le due parti si alternano un paio di volte, con la norma iniziale che si fa più piena di influssi soprattutto post-rock, ma senza perdere la sua anima eterea. Verso metà, tuttavia, il brano cambia strada, verso una melodia ancor più depressa e mogia. Cantata all’inizio dal frontman su una base di chitarra post-rock, si ripete ossessiva anche quando il metal esplode, molto espanso. È una base post-metal di vago influsso groove e doom, martellante ma ipnotica, che va avanti a lungo, fino a che tutto si spegne. Donando un finale di gran atmosfera a un pezzo grandioso, il picco del disco che chiude con la opener!
Come già detto all’inizio, se da un lato la proposta degli White Walls è ottima, la band rumena dovrebbe trovare un po’ più di concretezza e di continuità. O almeno, dovrebbe cercare di non disperdere troppo le idee in un disco troppo lungo, come Grandeur. Parliamo di un lavoro non all’altezza delle potenzialità del gruppo, che pure in parte vengono fuori: il risultato finale rimane buono. E, se ami il progressive metal moderna, potrà comunque fare al caso tuo. Ma solo a patto che non cerchi un capolavoro a tutti i costi!
1 | False Beliefs | 01:38 |
2 | Eye for an I | 04:45 |
3 | Home Is on the Other Side | 05:04 |
4 | Holy Worse | 04:50 |
5 | Velvet | 04:56 |
6 | Speaking in Tongues | 02:41 |
7 | Starfish Crown | 05:32 |
8 | Locked in Syndrome | 04:28 |
9 | Mouth’s End | 04:19 |
10 | The Descent | 06:47 |
11 | The Slaughter (Marche Funèbre) | 08:57 |
Durata totale: 53:57 |
Eugen Brudaru | voce |
Alexandru-Eduard Dascălu | chitarra |
Șerban-Ionuț Georgescu | basso |
Theo Scrioșteanu | batteria |
ETICHETTA/E: | autoprodotto |
CHI CI HA RICHIESTO LA RECENSIONE: | Cerulean Midnight |